ArcheoFOSS 2020
FOSS, open data e open contents in archeologia: breve storia, stato dell’arte e scenari futuri

Piergiovanna Grossi

piergiovanna.grossi@softwarelibero.it

https://www.dcuci.univr.it/?ent=persona&id=4736

Piergiovanna Grossi dal 2012 lavora come assegnista di ricerca e collaboratore esterno alla ricerca presso l’Università degli Studi di Verona, dal 2018 è docente a contratto presso il Dipartimento di Culture e Civiltà della stessa Università. Si occupa di tecnologie applicate ai beni culturali, con particolare interesse per standard, formati e dati aperti, software libero.

Marco Ciurcina

Marco Ciurcina, avvocato iscritto all’Albo degli Avvocati di Torino dal 1994. Opera nel campo del diritto commerciale, societario e contrattuale, diritto dell’Information Technology, diritto d’autore, brevetti e marchi, in particolare con focus su software libero, contenuti e dati aperti.

I concetti di software libero e copyleft nascono alla fine degli anni ‘80, quando la diffusione del personal computer e delle prime BBS danno origine a un’utenza privata dell’informatica. Le pratiche e le normative esistenti mal si adattano ai nuovi modelli produttivi e comunicativi proposti dalle nuove tecnologie e si rende necessario stabilire nuove regole in grado di stare al passo con la rapida evoluzione di hardware e software. È così che vengono ideate licenze in grado di tutelare i produttori di software ma al contempo anche di favorire la diffusione e divulgazione delle loro creazioni. Nei primi anni ‘90, il rapido sviluppo del web crea un nuovo forte divario tra la legislazione esistente e le innumerevoli possibilità di condivisione offerte dalla rete e, anche grazie alla spinta di associazione e movimenti come l’Electronic Frontier Foundation o il movimento per l’Open Access, i concetti di copyleft e di licenza libera si diffondono rapidamente anche a dati e contenuti. Un nuovo punto di svolta si ha circa una decina d’anni più tardi, quando Cloud e servizi web cominciano a entrare nell’uso comune. Il supporto fisico di dati e contenuti non è più detenuto da chi li produce, ma ubicato altrove e l’accesso è regolato da licenze di servizio. Ora ai movimenti e alle associazioni per i diritti digitali si affiancano spesso Antitrust e Garanti Privacy nazionali, che intervengono frequentemente in casi di utilizzo non appropriato dei dati: la loro tutela rappresenta ora la nuova frontiera per le libertà digitali. Tale repentino sviluppo tecnologico ha portato anche chi si occupa di beni culturali e di archeologia a riflettere su leggi e regolamenti non più adatti alle modalità digitali di archiviazione e divulgazione. Seppure con un certo ritardo, nascono in Italia movimenti a favore dell’uso di tecnologie libere e dell’apertura di dati e contenuti, tra i principali: ArcheoFOSS, che ha impresso una forte spinta alla conoscenza del software libero in ambito archeologico, e il movimento Fotografie Libere per i Beni Culturali, motore di un’importante iniziativa grazie alla quale dal 2017 i beni culturali di proprietà pubblica sono liberamente fotografabili e divulgabili (fatto salvo lo scopo di lucro). È indubbio che attualmente il software libero sia largamente impiegato nel settore archeologico: solo per citare alcuni esempi, QGIS è tra i software più diffusi negli scavi e negli studi territoriali; Leaflet e Geoserver sono tra le tecnologie Web GIS più utilizzate, etc. Ci si chiede dunque se per i dati e i contenuti relativi ai beni culturali e archeologici l’applicazione di licenze libere sia diffusa quanto l’utilizzo di software libero. L’analisi delle principali pubblicazioni dedicate a questi temi sembra evidenziare come software e dati siano andati fin’ora a due velocità diverse: al grande utilizzo di software libero non corrisponde un altrettanto ampio accesso ai dati. Le principali cause di questo divario vanno ricercate nel contesto storico sopra citato: la spinta all’accesso ai dati ha una origine più recente, inoltre pratiche e leggi ancora non adeguate al ciclo di produzione digitale costituiscono spesso un forte freno all’apertura. Un’ulteriore problematica è quella delle modalità di accesso: spesso i dati necessitano di un oneroso processo di rielaborazione e migrazione per poter essere esposti come “open data” e l’infrastruttura tecnologica disponibile non è adeguata. Non mancano tuttavia in Italia esempi pionieristici che fanno ben sperare, come i progetti SITAR o Mappa. In tale stato dell’arte si innesta una riflessione sugli scenari futuri. Ancora una volta sembra profilarsi una doppia velocità: quella più rapida dell’apertura dei dati, stante un processo in qualche modo già avviato, e quella più lenta della predisposizione di infrastrutture e di servizi con termini d’uso appropriati. La nuova sfida del futuro sembra dunque essere la tutela e conservazione del nostro patrimonio culturale digitale.